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Sentenza “Impregilo”: una guida in materia di responsabilità amministrativa degli enti ex D.Lgs. 231/2001

La sentenza n. 23401 emessa il 15 giugno 2022 dalla Sesta Sezione della Cassazione Penale ha  determinato la conclusione del noto “caso Impregilo”.

La vicenda muoveva dalle accuse rivolte al Presidente del Consiglio di Amministrazione e all’Amministratore delegato della società capogruppo, i quali avrebbero comunicato al mercato notizie false aventi ad oggetto le previsioni di bilancio e la solvibilità di una società controllata e posta in stato di liquidazione. Alla società veniva dunque contestato l’illecito amministrativo di cui all’art. 25-ter, lettera r) del D.Lgs 231/2001, relativo al reato di aggiotaggio, di cui all’art. 2637 cod. cov., che, seconda la ricostruzione accusatoria, sarebbe stato commesso nell’interesse e a vantaggio della società stessa.

La sentenza analizza a fondo il sistema di operatività del D.lgs. 231/2001 focalizzandosi, in particolar modo, su tre questioni di primaria importanza: 1) l’idoneità del modello 231; 2) le competenze e l’autonomia dell’Organismo di Vigilanza; 3) l’elusione fraudolenta del modello da parte dei soggetti apicali.

L’idoneità del modello 231

Ai sensi di quanto disposto dal D.lgs. 231/2001 la responsabilità dell’ente deriva da una fattispecie complessa nella quale il fatto di reato rappresenta un mero presupposto che, da solo, non è idoneo a fondare la responsabilità amministrativa della società. La fattispecie criminosa deve infatti essere commessa da un soggetto che si trovi in un rapporto qualificato con la società e che agisca nell’interesse o a vantaggio della stessa. Inoltre, sul piano soggettivo, deve sussistere in capo all’ente, che si pretende coinvolto nella vicenda criminosa, la cosiddetta “colpa in organizzazione”, ossia una specifica carenza organizzativa rispetto ad un modello di diligenza richiesto all’ente stesso.

Tuttavia, deve rilevarsi che, come ricordato dalla Suprema Corte, la responsabilità degli enti per i reati commessi da soggetti in posizione apicale è stata costruita dal legislatore secondo un meccanismo particolare. L’art. 6 del D.lgs. 231/2001, stabilisce infatti che “l’ente non risponde se prova che […] l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi”. È dunque fondamentale verificare l’idoneità del modello organizzativo adottato dalla società a ridurre il rischio di commissione dei reati indicati dal D.lgs. 231/2001 quali reati presupposto. Nel verificare tale caratteristica la sola commissione di un reato non equivale a dimostrare che il modello non sia idoneo. Il legislatore ha infatti voluto evitare di punire l’ente secondo un criterio di responsabilità oggettiva, prevedendo che il rischio della commissione del reato venga ritenuto accettabile nel momento in cui il sistema di prevenzione non possa essere aggirato se non fraudolentemente. Pertanto, ai fini dell’imputazione all’ente dell’illecito amministrativo, è necessaria l’inidoneità o l’inefficace attuazione del modello stesso secondo una concezione normativa della colpa. In estrema sintesi, secondo la Corte, “l’ente risponde in quanto non si è dato un’organizzazione adeguata, omettendo di osservare le regole cautelari che devono caratterizzarla”. Dunque, affinché possa affermarsi una responsabilità colposa dell’ente, i giudici di legittimità ritengono che sia “insufficiente la realizzazione del risultato offensivo tipico in conseguenza della condotta  inosservante di una data regola cautelare” occorrendo che “il risultato offensivo corrisponda proprio a quel pericolo che la regola cautelare violata era diretta a fronteggiare”. È necessaria quindi una corrispondenza causale tra violazione della regola cautelare e la produzione del risultato offensivo.

La Corte, sulla base di tali considerazioni, evidenzia anche il concetto di “comportamento alternativo lecito”, ovvero l’ipotesi in cui l’osservanza della regola cautelare non avrebbe comunque consentito di eliminare o ridurre il pericolo derivante da una data attività. Pertanto, se “l’evento realizzato a causa dell’inosservanza della regola cautelare risulta non evitabile, non vi è spazio per l’affermazione di colpa”. Ne consegue quindi che “il giudice, nella sua valutazione, dovrà collocarsi idealmente nel momento in cui il reato è stato commesso e verificarne la prevedibilità ed evitabilità qualora fosse stato adottato il modello virtuoso secondo il meccanismo epistemico-valutativo della c.d. prognosi postuma”.

Infine, la Corte sottolinea che il giudice è chiamato ad una valutazione del modello in concreto e non in astratto. Il controllo va quindi limitato alla verifica dell’idoneità del modello a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Si esclude così che il controllo giudiziario della compliance acquisisca una portata totalizzante, dovendo essere rivolto, invece, ad escludere la reiterizzazione degli illeciti già commessi.

Le competenze e l’autonomia dell’Organismo di Vigilanza

Con riferimento al ruolo e alle competenze dell’Organismo di Vigilanza, la sentenza in esame ha evidenziato come tale organo, pur non dovendo necessariamente essere esterno alla struttura organizzativa dell’ente, debba essere comunque munito di poteri autonomi rispetto agli amministratori.

Il Collegio ha poi ritenuto che “la lacuna od il punto di debolezza di un modello possano condurre a ravvisare una responsabilità dell’ente soltanto se abbiano avuto un’efficienza causale nella commissione del reato presupposto da parte del soggetto apicale, nel senso che la condotta di questi sia stata resa possibile, anche in via concorrente, proprio dall’ assenza o dall’insufficienza delle prescrizioni contenute nel modello”. È dunque necessario, ai fini della sussistenza della responsabilità dell’ente, che sia dimostrata l’esistenza di un nesso causale tra la carenza del modello e una inadeguata garanzia di autonomia dell’organismo di vigilanza.

Quanto al tema dei poteri dell’organismo di vigilanza sugli atti dell’organo rappresentativo e degli amministratori dell’ente, è necessario individuare fino a che punto sia legittimo esigere che anche tali atti siano sottoposti ad un controllo, tanto più se di tipo preventivo, da parte dell’organismo stesso. A tal riguardo, la Suprema Corte ritiene che le scelta del legislatore di tenere distinta la responsabilità dell’ente da quella dei suoi vertici, riconducendo alla prima solo le condotte collegate alla c.d. “colpa di organizzazione”, costituisca il metro dell’ingerenza consentita all’organismo di vigilanza sugli atti dei soggetti apicali e quindi il contenuto del modello affinché questo possa essere reputato idoneo.

L’organismo di vigilanza, dunque, non può avere connotazioni di tipo gestorio, che contribuirebbero unicamente a minarne l’autonomia. Secondo la Corte infatti, ad esso “spettano, piuttosto, compiti di controllo sistemico continuativo sulle regole cautelari predisposte e sul rispetto di esse nell’ambito del modello organizzativo di cui l’ente si è dotato”.

Elusione fraudolenta del modello

L’art. 6, comma 1, lett. c) del D.lgs. 231/2001, prevede che l’ente possa sottrarsi alla responsabilità da reato per un fatto commesso da soggetti apicali qualora questi abbiano commesso il reato “eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e gestione”. Non sussiste la responsabilità dell’ente nel caso in cui i soggetti apicali abbiano tenuto una condotta “ingannevole, falsificatrice, obliqua subdola, tale da frustrare con l’inganno il diligente rispetto delle regole da parte dell’ente”.

L’ente può quindi andare esente da responsabilità ove la condotta tenuta dall’organo apicale rappresenti una dissociazione dello stesso dalla politica dell’impresa. In tal caso il reato deve costituire il prodotto di una scelta personale della persona fisica, realizzata non già per effetto di inefficienze organizzative, ma, piuttosto, nonostante un’organizzazione adeguata, attraverso una condotta ingannevole. L’elusione fraudolenta va quindi valutata in riferimento non al precetto penale, bensì a quanto previsto dal modello organizzativo adottato, dovendo rappresentare una modalità esecutiva della condotta del soggetto apicale e non anche un elemento costitutivo del reato da questi commesso.