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LA CASSAZIONE TORNA AD ESPRIMERSI SU PUT OPTION E DIVIETO DI PATTO LEONINO

Contributo a cura dell’avvocato Niccolò Medica pubblicato su N&T Plus Diritto – Il Sole 24ORE.

L’art. 2265 cod. civ. stabilisce che il c.d. “patto leonino”, ovvero il patto che esclude uno o più soci dalla partecipazione agli utili o alle perdite della società, è nullo.

La giurisprudenza ritiene che il divieto di patto leonino, anche se previsto espressamente solo per la società semplice, sia applicabile a tutti i tipi di società, in quanto principio cardine di tutto il sistema societario.

Nel corso degli anni si è aperto un dibattito, a livello dottrinale e giurisprudenziale, in merito alla possibilità di estendere il divieto dell’art. 2265 cod. civ. anche ai patti parasociali.

Infatti, secondo un orientamento giurisprudenziale che è stato prevalente sino al 2018, il divieto dell’art. 2265 cod. civ. può riguardare anche i patti parasociali: tale orientamento fa leva sul principio, espresso dalla Cassazione con sentenza del 29 ottobre 1994, n. 8927, secondo il quale “il divieto di esclusione dalla partecipazione agli utili o alle perdite deve essere riguardato in senso sostanziale, e non formale, per cui esso sussiste anche quando le condizioni della partecipazione agli utili o alle perdite siano, nella previsione originaria delle parti, di realizzo impossibile, e nella concretezza determinino una effettiva esclusione totale da dette partecipazioni”.

Negli ultimi tempi, il tema della validità di clausole put contenute in contratti aventi ad oggetto la compravendita di partecipazioni societarie, in virtù delle quali un socio ha la facoltà di vendere ad un prezzo già pattuito la propria partecipazione rendendo il socio stesso, di fatto, immune dall’andamento della società, è tornato di grande attualità.

È infatti abbastanza comune che, nelle operazioni di investimento in equity, al soggetto che entra nel capitale sociale della società venga data la possibilità di esercitare un’opzione di vendita al fine di consentirgli di disinvestire ove sia insoddisfatto dell’operazione conclusa.

Con sentenza del 4 luglio 2018, n. 17498, la Cassazione, discostandosi dal proprio precedente del 1994, ha ritenuto che sia “lecito e meritevole di tutela l’accordo negoziale concluso tra i soci di una società azionaria, con il quale l’uno, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighi a manlevare l’altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l’attribuzione del diritto di vendita (c.d. “put”) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell’acquisto, pur con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società”.

La Cassazione limita l’operatività del divieto del patto leonino ai soli casi di pattuizioni direttamente contrastanti con l’art. 2265 cod. civ., diverse dalle operazioni contrattuali consistenti in meccanismi di “trasferimento del rischio puramente interno fra un socio e un altro socio o un terzo”, privi, in quanto tali, di rilevanza rispetto all’ente societario.

In sostanza, quindi, la sentenza in questione allarga i confini per la strutturazione di articolate operazioni inquadrabili nei c.d. “finanziamenti partecipativi”, qualificati dai giudici di legittimità come, a priori, meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322 cod. civ., in quanto rappresentano una forma di partecipazione di impresa che comporta, per il socio finanziatore, una remunerazione del conferimento, la certezza dei valori di exit e, talvolta, poteri di controllo, mentre, per l’imprenditore, la possibilità di reperire risorse finanziarie.

Nonostante la pronuncia di legittimità del 2018, la giurisprudenza di merito (in particolare quella milanese) ha, ancora recentemente, fatto proprio l’orientamento più risalente della Cassazione.

In particolare, il Tribunale Milano, Sez. spec. Impresa, con sentenza del 23 luglio 2020, n. 4628, ha ritenuto che “l’opzione di vendita (cd. opzione put) di una partecipazione sociale con corrispettivo predeterminato, comprensivo degli esborsi medio tempore eseguiti dal socio titolare dell’opzione di vendita in favore della società, per giunta di importo comunque superiore al versamento in aumento di capitale eseguito dal titolare dell’opzione al momento dell’ingresso in società, realizza, in via indiretta, il risultato vietato dal c.d. patto leonino. Di conseguenza, l’opzione di vendita così congeniata è colpita dalla sanzione di nullità di cui all’art. 2265 cod. civ.”.

I giudici milanesi si discostano espressamente dal precedente del 2018 della Cassazione, ritenendo che un’opzione di vendita, quale quella sopra delineata, non sia coerente con la ratio del divieto di patto leonino, il quale mira alla buona gestione dell’impresa e non tollera situazioni di assoluto e costante disallineamento tra un investimento di equity e la miglior gestione possibile dell’impresa. Tale principio, secondo il Tribunale di Milano, trova conferma anche nell’art. 2467 cod. civ., relativo alla postergazione dei finanziamenti dei soci, che farebbe intendere l’intenzione del legislatore da dare rilevanza alla “posizione di socio quanto all’assunzione del rischio di impresa”.

Sull’argomento si è nuovamente – e recentemente – espressa la Prima Sezione della Corte di Cassazione con sentenza del 7 ottobre 2021, n. 27227: la Suprema Corte ha richiamato il proprio precedente del 2018, ribadendo il principio secondo il quale “è lecito e meritevole di tutela l’accordo negoziale concluso tra i soci di una società azionaria, con il quale l’uno, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighi a manlevare l’altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l’attribuzione del diritto di vendita (c.d. put) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell’acquisto, pur con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società”.

In conclusione, secondo il più recente pronunciamento della Corte di Cassazione, è legittima, nelle operazioni di investimento, la concessione di un diritto di exit al soggetto che fa ingresso nella compagine sociale tramite una put option.